Lettori fissi

08/07/21

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animali ed altro; mobili e memorabilia, oggetti e aggeggi i più vari compreso la Lancia Aurelia B24 del sessantadue. Accatastò personalmente tutto in un capace container e via per mare verso sud. Si era dato alla chetichella senza lasciar contatti o indirizzi. Solo un biglietto senza firma ad ognuno degli amici. Stesso cartoncino burro e medesima frase vergata a mano. “Non cercatemi”. E cosi fecero. I successivi mesi scorsero lenti senza vedersi o cercarsi quasi che il desiderio dell’amico fosse valevole anche per loro. Non a caso erano il gruppo più longevo della storia. Uniti e solidali da quasi sessant’anni ma alla bisogna, sui versi di un vecchio detto: “Ognun per sé e Dio per tutti”. Solo Caterino si ostinava a cercarlo. Un breve messaggio al solito indirizzo di posta; peraltro senza nessuna risposta; una volta al mese: “Insomma ci è dato di sapere dove ti sei cacciato?”. Così se n’andarono le stagioni del freddo e della nebbia. Poi è giunse improvvisa la bella e con quella la voglia di vedersi diventò impellente. Anzi un torrente in piena. Tanto per la prima; contravvenendo ad una norma non scritta anche se acclarata; si son cercati lo stesso giorno d’inizio primavera. Incontrati poi il successivo dando inizio alla rumba delle ricerche. Che devo dire furono assai brevi. Già per la fine del mese avevano una ben chiara idea di dove fosse e cosa stesse facendo il fuggitivo. Semplicemente stava in vacanza in Sicilia. Viaggiava come una trottola da un luogo all’altro: castelli e spiagge, città e paesi, templi greci e ville romane. Visite private e pubbliche. In perenne movimento quasi che sentisse l’urgenza di far cose e vedere gente come un settantacinquenne qualsiasi che, prima di lasciar questa valle di lacrime, vuole visitarla tutta ma proprio tutta con spostamenti contorti e senza ragione apparente. E se Pollicino lasciava molliche ad ogni svolta il nostro Michele smatassava rocchetti virtuali, che il web diligentemente memorizzava, disegnando un labirinto grande come la regione. Usava esclusivamente la mitica spider bianca de “Il sorpasso”. E per questo lo tracciarono con facilità. Prima sulla rete tramite post, articoli e video e poi con la vecchia chiamata vocale. La nera cornetta di bachelite, che risaliva ai tempi della guerra, funzionava ancora. Era stata lasciata in eredità da Brunino detto “il biondo” quando se n’era andato sbattendo la porta. Il numero telefonico che composero raccontava di un imprecisato punto dell’entroterra catanese. La telefonata fu breve e sintetica. L’onere, per estrazione della pagliuzza più corta, toccò a Ronaldo. “Scendiamo domani; non scappare”. La risposta fu invece poco più lunga e articolata. “Fermi tutti. va bene per domani ma adesso sentite bene che c’è una grande novità; Ho trovato un posto semplicemente fantastico. Non chiedetemi niente. Domattina all’alba facciamo un WA video al numero che sapete e vi sarà tutto chiaro”. E così fecero. Dopo la diretta s’imbarcarono per il breve viaggio. In volo fino alle pendici del vulcano e poi sul Van a trazione elettrica fittato per l’occasione. Carletto alla guida e gli altri sul posteriore. Il vano di carico, nonostante si fossero imposti di viaggiar snelli e leggeri, era interamente occupato da strumenti ed altre diavolerie. Poco prima del tramonto parcheggiarono fuori del recinto. Varcarono la porta del cimitero monumentale della città della ceramica e si persero per viali e vialetti alberati. La vista del grande porticato l’indirizzò al posto dell’appuntamento. Naturalmente il viaggio aereo era servito ad assorbire tutte le informazioni sul luogo compreso le ultime vicende che avevano portato alla definizione del singolare spazio di pietra che li avrebbe accolti nei prossimi minuti. L’esterno per la verità era un fitto bosco di vaga forma ottagonale. E come una “selva oscura” non presentava accessi agevoli se non modesti pertugi che si perdevano ed intersecavano con la fitta vegetazione. Ne provarono uno e vi s’avventurarono. Occorsero pochi passi per accedere, come per magia, al cortile circolare. Era tutto di pietra spezzata con ciottoli di diverse pezzature sia per terra che in elevato. Tutto il sistema, dalla forma di una specie di imbuto troncato, era costruito con gabbionate metalliche gradonate verso l’alto per diversi metri. E sui gradini sculture di ceramica bianca. Per la precisione trecento trenta tre e molto diverse le une le altre; per forma, dimensioni e tipologia. C’erano teste, maschere, pupazzi e quanto altro accumunate solo da colore e finitura. Lucidissima. Sul primo gradino a sinistra entrando c’era il cantante. Adesso si erano proprio riuniti. E anche se in quattro assommavano a più di trecento eccoli qui; splendidi e splendenti come il primo giorno. “Signore e signori: le pietre rotolanti”. Fischi, boati e applausi scaturirono dagli interstizi delle pietre che li circondavano. Era il solito trucco ad effetto dell’amico. L’altro; lui ne preparava sempre due oramai era acclarato; scivolò sulla corda assicurata ad un chiodo d’arrampicata dieci metri più in alto. E atterrò con un balzo proprio al centro dell’emiciclo. A tutta prima pensarono al solito sconosciuto buontempone che si intrufola per qualche momento di notorietà. Poi realizzarono che il loro viaggio era stato segretamente organizzato in fretta e furia e il tipo era vestito come un pirata e anzi era proprio un filibustiere. Somigliava vagamente a Giovanni detto “il passero”; quello della saga. Anzi era proprio “iddu”. Stavano assorbendo il dialetto? Che senza troppe cerimonie raccontò della scena che aveva architettato nei mesi scorsi. Il fatto che il fuggiasco avesse scelto, tra tutti i possibili buoni rifugi, questi luoghi aveva semplificato la progettazione dell’evento. Che in buona sostanza trattava di un concerto in diffusione interstellare. “Come agli inizi, voi quattro e basta. Senza diavolerie elettroniche e luci di base. Suono sporco e via. Stones contro tutti. Che ve ne pare”? Gli astanti non ebbero neanche il tempo di ribattere. “Ops che imbecille. Scordavo: sarete truccati da perfetti pirati. Per i costumi non c’è problema. Ho preso in prestito il camper della produzione del sesto che va in lavorazione il prossimo mese laggiù nella baia”. Ed essendo ormai sicuro di averli in pugno continuò: “In risposta sono ammesse solo tre lettere e la prima inizia con y”. Un abbraccio e una bottiglia di Nero d’Avola sancirono l’accordo. Non suonavano insieme da più di un anno. La pandemia aveva fatto strage di molti dei loro amici e sodali. Ma la voglia era tanta. Profittarono del mese della fioritura per rimettersi in forma. Fisica e soprattutto mentale. Alimentazione mediterranea, niente droghe e super alcolici. Risultato: quindici anni di meno. Finalmente, dopo preparativi tecnologici e soprattutto mediatici, il luogo fu pronto. Gli strumenti piazzati e accordati. La regia multimediale ben nascosta nelle contigue cripte sotterranee. I musici lavati e stirati e rimessi a nuovo quasi come ai bei tempi. I costumi anche. E venne il giorno, anzi la sera appena prima del tramonto. Il piccolo cortile circolare, di sette di raggio, è occupato con discrezione da suonatori e strumenti. Le trecento trenta tre video camere sono piazzate su altrettanti droni che al momento giusto si alzeranno a fare il loro mestiere di trasmettere immagini. I fili e tutto il resto son collegati. Mancano tre minuti al collegamento quando l’inventore di tutto l’ambaradan se n’esce con : “Amici, solo un ultima cosa, resta stabilito che nel finale attacco lo spinotto e suono con voi”. Non ci furono risposte ma solo quattro risate all’unisono. Puntuale l’evento iniziò. Fu naturalmente splendido, secco e corposo ad un tempo. Puro blues dei tempi andati mescolato al rock delle origini e frullato da cinquant’anni di palco. Poco meno di “una favola”. I droni si alzarono e più volte volteggiarono come calabroni impazziti trasmettendo immagini potenti e tecnicamente perfette. Bah. che credete? Va bene il suono grezzo ma siamo “le Pietre” Alla fine, come tutte le cose belle, il concerto si avviò al termine. Tre minuti alle ventiquattro. Il nostro eroe entrò da un pertugio del muro e apparì magicamente sulla scena. Collegò la chitarra e attaccò. Uno dei riff più conosciuti di sempre. Il pezzo giusto per la fine dello show. 3’38”. Questa è la durata della versione originale. Quella notte arrivarono a 14’26”. Quello fu il tempo impiegato dal Passero bucaniere a convincere gli altri quattro a fare quello che fecero. Profittò dell’esecuzione allungata per parlare ad ognuno di loro. “Allora. Verso al fine del pezzo, vi avverto io che mi son messo d’accordo con la regia, fate come me: sganciate gli strumenti e lanciatevi verso il muro scalettato. I droni saranno in volo inquadrando le stelle e anche le luci si smorzeranno pian piano. Ecco. Al mio cenno via. Su per i gradoni fino alla fine della muraglia. Scavalcate e nascondetevi dentro il fogliame della siepe e dopo via come il vento. Sparpagliamoci tra le tombe, scompariamo”. Facciamo “la scappata”.

01/07/21

Fermata

Fermata | 2021 Son stata costruita dal fabbro di Ponte agli Stolti. Che a quel tempo: la fine dei settanta, vinse l’appalto per realizzarne centocinquanta come me più altrettante gemelle. L’artigiano non aveva troppa pratica di appalti pubblici ma era rimasto senza lavoro. Aveva due operai e un apprendista da pagare tutti i mesi ed era un tipo preciso e padre di famiglia. Ergo assunse il lavoro col ribasso del sessanta e zero quattro per cento. Praticamente alle spese o poco più. Appena comincio l’opera si rese conto di un altro errore. Questo forse anche peggio del primo. Con le macchine e la forza lavoro che possedeva non sarebbe mai riuscito a stare nei tempi di consegna. Allora si dovette raccomandare all’amico del paese accosto che aderì, devo dire malvolentieri, per lo stesso prezzo dell’appalto principale con il solo sovraprezzo di un maiale lavorato che il nostro incauto appaltatore aveva appena messo sotto sale. Questo per dire che l’operazione nacque sotto i peggiori auspici. Alla fine comunque il costruttore consegnò. In qualche modo e con qualche difetto ma onorò il contratto compreso il dieci per cento richiesto in più come riserva “… non si sa mai ci fossero cedimenti improvvisi o altre manchevolezze”. Questo aveva stabilito il mega direttore grand ufficiale generale e quanto altro all’atto della firma. Trecentotrenta quindi e allo stesso prezzo. Ma così è la vita. Io che son “Fermata” per chi viene dalla Stazione Smn, traguardo di rimpetto la mia gemella definita “Salita” per chi si reca in centro, son una delle difettate. A tutta prima appena fatta non si vedeva la magagna che è venuta fuori piano piano nel corso dei mesi a seguire. Il piccolo cretto in alto, all’attacco con la lamiera gialla porta numero, si apre impercettibilmente ogni giorno. Adesso dopo tre anni e passa che son piazzata il segnale della fermata denuncia la sua piegatura tendente al basso. E ancora nessun ispettore della manutenzione si è accorto. Boh. Magari una volta o l’altra finisco per terra. Non oggi però. Stamani ero, dove son sempre per altro, ferma impalata in attesa dell’arrivo del mezzo quando un paio di giovani poco oltre i venti si avvicinano, mi toccano e palpano come veri intenditori di manufatti metallici. Poi il primo attacca a ragionare di un risotto alla salsiccia da proporre stasera ai commensali prima della finale. L’altro, concentrato a lisciarmi tutta, dal basso verso l’alto, pare preoccuparsi più di un cartellone dove vergare a mano una frase strana che ha a che fare con il nome del paese da cui provengo e che è scritto stampatello in corpo sei nell’adesivo attaccato alla base. Nel frattempo ne sono arrivati altri due. Anche questi provengono dall’ingresso poco di fronte: via Pagnini n. 1, rialzato destro. Anch’essi allungano le mani per tastarmi tutta. Ma che c’avranno mai? A me fa anche piacere che nonostante le stagioni mi sento ancora piacente e di sicuro tornerei come nuova se solo quei disgraziati dei controllori mi segnalassero al pittore dell’officina. Poi quello vestito con la maglia della nazionale mi dice sottovoce. Rivolto al disco numerato col sei. “Stasera cocca se si vince e fai la brava ti si porta in giro per i viali e ti si usa come bandiera. Chissà come dev’essere sventolar a mò di bandiera la palina della fermata”. E via con battute siffatte che solo loro trovavano divertenti. Io no di certo. “Ma stai zitto”. Irrompe il quarto, quello che appare più posato. “Pensa invece a preparare il risotto che hai promesso agli ospiti” -mentre i quattro orientano la capoccia verso la cima del paletto e si producono nel più ebete dei sorrisi continua- in fin dei conti quello che veramente conta in questi frangenti è il proverbio che noi onoriamo spesso e volentieri”. Tutti all’unisono. “Il riso abbonda nella bocca degli Stolti”.

25/06/21

Il riso abbonda

Il riso abbonda |2021 La prima volta ci son arrivato in autobus. Una scatola con quattro ruote, di lamiera arancione, cartellata davanti e in tergo, con il “sei”. Puzzolente e rumorosa come tutte le linee pubbliche del tempo. Questa unisce l’ospedale di Scandicci con quello di Careggi, si ferma un momento al numero 1 di via Pagnini e qui scendo anzi scendiamo. Io sottobraccio al mio compratore che a sua volta mi ha prelevato dal pizzicagnolo giù in fondo alla strada. “Mille lire per un chilo di riso arborio, chicchi ricchi ideale per risotti, marca Gallo quello che non scuoce, cottura quindici o giù di lì, impacchettato con la scatola verde e il pennuto in evidenza.” Un affare? In realtà il suo prezzo in quei primi giorni di settembre millenovecent’ottantuno. “Forse – arguì il portatore del riso – se ci pensavo prima allo spaccio della cooperativa giù a casa l’avrei pagato meno di sicuro.” Ma il tempo fugge e il treno per Firenze era in partenza. Ergo basta con i rimpianti e andiamo a suonare il campanello del piano rialzato, pianerottolo a destra. Al suono stridulo fanno eco: “Arrivo … calma … eccoci”. La porta si apre e mostra quattro loschi figuri; giovani, curiosi e studenti. Proprio come il mio accompagnatore che fa subito amicizia e comunella con i nuovi compagni. Saranno insieme per la prossima annata e quindi profittano dell’occasione per conoscersi davanti ad un caffè e un pacchetto di cicche. Quanto a me; che accompagno il nuovo abitante della casa e dovevo essere il regalo ai suoi abitanti; son dimenticato “Nella stanza d’ingresso, sopra alla mensola dell’unica nicchia. Quella appena a sinistra sopra l’interruttore”. E li rimango per un paio di stagioni con l’unica compagnia del tristissimo Siemens S62 grigio tortora ammalata. Che tra i pregi non ha grandi proprietà conversative anzi non ne ha proprio. “Muto come un pesce” potrebbe essere un aggettivo che lo rappresenta bene. D’altra parte cosa si possono mai dire una resina e un cereale? Fatto sta che da quella posizione osservo e partecipo, anche se solo come spettatore, alla vita della casa. Sbircio gli occupanti quando escono dalla doccia o quando si radunano per la cena, quando si preparano per uscire e quando ricevono compagnia. E via di altro. Del mio ospite, appena conosciuto, posso tuttavia raccontar solo difetti e mancanze a meno dell’unica mossa azzeccata il giorno della venuta in casa. Mi cacciò sullo scaffale e poi mi orientò verso lo specchio. Proprio di fronte a quello lungo che sta a lato dell’attaccapanni. Quindi mi posso vedere e rimirare tutte le volte che voglio. Godo della vista del mio bel pacchetto e col tempo ho imparato a leggere anche le scritte più piccole sul fianco della confezione. Una in particolare mi preoccupa e non poco. Al termine di una serie di discorsi informativi su tipo, provenienza, valori nutrizionali, cottura, preparazioni usi e costumi l’ultima mi mette apprensione per non dire paura. Trascrivo precisamente: “Prodotto: 12-07-1978. Scadenza: 11-07-1981”. Ergo son valido solo fino a quel giorno. Le stagioni fanno il loro mestiere; passano. Dopo l’autunno ecco l’inverno e poi la primavera. L’estate comincia il ventuno del mese delle lucciole. Da alcuni giorni la casa è frizzante e i suoi abitanti in continuo movimento. Come se fossero stati morsi dalla tarantola schizzano tra le stanze e il giardino. Non certo per via di studio o esami da sostenere. Anzi un paio di loro han proprio mollato. Son sempre dietro a notizie sportive sia in video che in audio. C’è poi quello con il cuore a strisce nerazzurre che la mattina esce di buon’ora e torna accompagnato da tutti, ma proprio tutti, magazine e quotidiani sportivi compresa, come potrebbe essere altrimenti, la mitica gazzetta sui fogli rosa. Ogni sera organizzano un trattenimento. Cena e urla e bandiere e trombette. Finalmente son riusciti a trovare la prolunga per l’antenna e adesso il catafalco in bianco e nero, in uso alla casa, fa mostra di sé sul tavolinetto di cemento che un tempo sopportava la composizione floreale della legittima. L’immagini son decisamente sfuocate ed approssimative ma qualcosa si vede. E il resto, che ci frega, s’immagina. Questa rumba va avanti tutti i giorni fino a notte inoltrata. Dopo la gara di solito gli eroi escono a festeggiare per strada e tornano belli caldi e col tasso alcolico superiore all’ammesso. Rammento che le feste ed i cortei furono particolarmente rumorosi e giocosi il ventinove e il successivo cinque. I tifosi si stavano scaldando per la finale. Che puntualmente arrivò il giorno che tutti sapete. Come anche la solita organizzazione di cena fredda, per non perdere tempo a cucinare, a base di crudités, affettati e formaggi. Vino delle vicine colline recuperato dalla solita mescita e via con i cori. Ma questa volta non andò così. Il mio portatore di pacchetto si ricordò, finalmente, della mia esistenza e mi propose come piatto forte del desinare. E se promettete di non sparger troppo voce vi dico la verità. “In tutti quei mesi passati in penombra sulla mensola mi ero allenato e dai oggi e picchia domani ero riuscito a muovere un poco alcuni chicchi che, sbattendo e strusciando, muovono la scatola di alcuni centimetri. E quel giorno, che era il mio ultimo da commestibile, le forse mi si moltiplicarono al punto da saltellare come un grillo all’omonima festa alle Cascine. Come sia zompai e saltellai verso il bordo”. “E caddi preciso sulla testa dell’ospite”. In prima mi maledisse e poi in seconda lesse la tabella con le istruzioni e le scadenze. Ecco che un piano geniale si affacciò alla sua testolina bacata. Rammentò un proverbio latino, o giù di lì, imparato alle medie e declamò: “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”. Ripeté la locuzione mentre riempiva la faccia di un sorriso ebete. Si specchio a tutta parete. La cosa poteva funzionare. Organizzarono le cibarie. Fui aggiunto alla lista delle cibarie come “risotto alla salsiccia” e subito messo sul fuoco. Cotto con tutti i crismi e i trucchi imparati dalle nonne e, appena mantecato, coperto a riposare per i prescritti minuti tre. Nel frattempo il gruppo, i soliti tredici, si accomodò in due file, la prima accoccolata, di fronte alla Pentax munita di autoscatto. Si disposero perbenino, “… ognuno come gli va …”, con il sorriso ebete stabilito poco prima. Il cartellone passò di mano e si fermò giusto sopra alla pentola fumante. Ecco. La scena era creata. Adesso potevano acquisire l’immagine da lasciare ai posteri ad imperitura memoria. In realtà a dimostrare ai nipoti quanto erano imbecilli. Ma questo è. Il riso abbonda sulla bocca degli stolti. Click.

18/06/21

Green phone

Green phone | 2021 La prima volta ci son arrivato impacchettato. Protetto da una bella scatola di cartone con sopra stampate alcune mie immagini da più lati. Sul davanti c’era pure scritto a mano il nome e il cognome dell’abbonato. Ero stato prelevato dal quarto piano di un grande scaffale confinato in una gigantesca sala piena zeppa di altri miei simili. Tutti dello stesso, tristissimo, colore grigio tortora, con il disco a dieci numeri, il cartoncino per il numero e la cornetta appoggiata sopra al corpo. Ops non mi son presentato. “Siemens S62, conosciuto come bi-grigio, edizione IX, codice 235711FI”. La scocca di moderno materiale termoplastico mi fa presupporre che ci sarò ancora, non so dove ma sarò in pista, quando voi sarete impacchettati sotto terra. Son sceso dalla Panda bianca, con la scritta “Sip” rossa sulla portiera, sottobraccio al tecnico che mi deve collegare alla spina tripolare. L’operaio non deve essere un’aquila visto che appena messo piede a terra avvia la tiritera dell’indirizzo: “Firenze, via Pagnini n. 1, suonare”. Il primo campanello lo sbaglia e non va meglio col secondo, solo al terzo c’acchiappa. Come sia all’ora del thè sono piazzato e funzionate. La suoneria è la medesima degli altri miei consimili. Estremamente democratica ed uguale per tutti: “Drinnng Drinnng”. Dopo la prova audio con la centrale operativa l’esperto se ne va senza salutare mentre io, anche perché non so dove altro andare, rimango. Nella stanza d’ingresso, sopra alla mensola dell’unica nicchia. Quella appena a sinistra sopra l’interruttore. Appena si chiude la porta il padron di casa mi sistema per le feste. “Considerato la destinazione della casa per i prossimi anni ed onde evitare problemi e discussioni -si si … pronuncia a voce alta proprio queste parole- ora ti regolo le chiamate con questo lucchettino appena arrivato”. E mi caccia dentro lo zero un freddo cilindro di ottone che stabilizza con la chiave. Dopo di ché spenge la luce e mi lascia in penombra. Vivo in pausa per tutto l’agosto dell’ottantuno. Poi la casa si anima. Ne giungono cinque. Le dita di una mano per altrettanti studenti che arrivano alla spicciolata tra settembre e la fine dell’anno. Due per ognuna delle due camere grandi più uno nello stanzino accanto all’ingresso. Li sento muoversi e li vedo parlare soprattutto quando abitano la minuscola cucina che nasconde, accanto al frigo, la porticina che accede alla vera chicca dell’abitazione. Un giardino, finto all’italiana, nel cortile di un isolato ottocentesco. Rammento che lo usarono lungamente e ripetutamente durante tutta la successiva primavera. Anzi avevano preso lo sfizio di bandire cena e festino a seguire per ogni superamento di esame. Il desinare variava sempre le portate ma mai il primo piatto che sempre inesorabilmente era Risotto alla salsiccia. Questo sempre accompagnato dal cartello scritto durante la prima volta: “il riso abbonda nella bocca degli stolti”. Grasse risate, foto ricordo e dichiarata invidia dei condomini. Poi una sera verso la fine di giugno succedono due fatti: gli occupanti riescono ad adattare un filo di ferro al meccanismo del lucchetto che mi blocca in uscita le chiamate e uno degli ospiti arriva con una prolunga telefonica di metri quindici. Questo significa che sono libero di telefonare e che finalmente vedo il cielo. Goduria totale. Fino all’undici del mese successivo quando la combriccola organizza il festino in occasione della finale spagnola. A Madrid gli azzurri si giocano la coppa mentre a Firenze mi si giocano a Murino. Vince chi copre più figurine dei calciatori durante il tempo concesso. Sono vinto da l’interista che subito mi abbraccia e mi giura eterno amore. Dopo cena ci godiamo la partita. A seguire la quale saliamo, siamo in tredici, sulle due “erre quattro” d’ordinanza a scorrazzare per la città. La notte è lunga ma alla fine spunta il sole e viene l’ora del ritorno al giardino. Qualcuno propone, sospetto di sapere chi sia, l’ultimo bicchiere della staffa. E mentre il liquore travasa di bocca in bocca il mio possessore abbranca una bomboletta da graffitista e sadicamente esclama. “M’è sempre stata sulle palle la cornetta color tortora”. “Agitare e non mescolare …” – parafrasando la conosciuta affermazione di 007 – “… montare il beccuccio, orientarlo e Ssssst Ssssst” - ripetuto più volte. L’ugello fa il suo mestiere e spande il colore in maniera uniforme. La triste cornetta diventa brillante e verde. Son felice e alla moda e anzi magari son io che anticipo i tempi. Un vero Green phone

11/06/21

Quella dei turchi

Quella dei turchi | 2021 L’ultima volta è stato di giovedì. Una decina di anni fa. i primi giorni di un settembre particolarmente mite. Era capitato di usufruire di un soggiorno premio che aveva avuto in sorte un amico collega di lavoro. Il trilocale sulla spiaggia serviva giusto come punto di appoggio: sveglia, doccia e colazione oltre al riposo notturno. Le sole quattro funzioni che c’interessassero. Per il resto una settimana da turisti senza metà: sole e mare, gastronomia e archeologia, lunghi viaggi e tramonti imperdibili. Niente di organizzato. Tutto al momento. Tutto fresco come un pesce di pescato. Usavamo la base come guardaroba e l’auto in fitto, navigatore e fresco compresi, per gli spostamenti sempre più lunghi e perigliosi. Duemila e trecento chilometri in una settimana, un botto di carburante e altrettanti biglietti di cartamoneta. Oltre ad una quindicina di granite e brioche col tuppo. La marina della città bianca ci faceva da base. Per il resto; in doppia coppia come un poker d’altri tempi; via la mattina presto e ritorno la sera tardi. Come dei forzati della vacanza per scoprire cose e case e persone le più disparate. Quel giorno siam tornati a veder la scalinata. Quella di Santa Maria del Monte a Caltagirone. La mia prima volta data della metà degli ottanta appena dopo la laurea. Rammento che saltellavo come un grillo parlante su è giù per i centoquaranta gradini. Felice come Guido; lui ancora non lo sapeva ma avrebbe ripetuto gli stessi gesti una ventina d’anni dopo; caraccollavo a destra e a manca da un capo all’altro dei palazzi che la contengono. E ogni tanto mi buttavo per terra a catturare immagini e disegnare i decori delle maioliche delle alzate. Quell’ora fu fantastica. Nonostante le canzonature dei compagni di viaggio da allora mi porto dentro quei sessanta minuti. In cuore. Ci son poi tornato più volte. Quasi come un mantra ho cercato occasione, ad ogni venuta nell’isola, per ripetere la visita. Le conto sulle dieci dita meno una e con quella di oggi arrivo al conto pari. E per altrettante volte ho cercato un’ altra scalinata. Questa devo dire senza mai trovarla. Ho cominciato la ricerca delle immagini dal momento che ne ho avuto notizia su di un libro di geografia delle medie e quindi una cinquantina, quasi, di anni addietro. L’ho continuata col viaggio in “erre quattro” che ci portò al periplo dell’isola su quattro ruote. Ancora dopo con la famiglia a completo e la tenda a seguito. Diverse volte l’anno che c’era da seguire i lavori della piazza di Grammichele. Tutte le volte c’ero andato attrezzato con tanto di mappe, foto, disegni, descrizione di viaggiatori e quanto altro. Ma niente. Non avevo barra avevamo mai avuto il piacere. Tutto questo malgrado la proverbiale capacità di orientamento universalmente riconosciuta. Ma questa volta avevamo la tecnologia dalla nostra parte. L’auto è dotata di navigatore aggiornato, almeno così ha risposto a precisa domanda il locatore. Abbiamo i telefoni intelligenti anche loro dotati di sistemi di navigazione di ultima generazione. Prima di partire mi son dotato di dettagliata carta topografica a colori. Mi son fatto arrivare anche un libro di geologia dove si ragiona della particolare marna bianca con cui è costituita la scogliera. Da certi parenti ho preso in prestito un preciso binocolo zeiss un poco vecchiotto ma con la confezione nuova di pacca. Tutto quanto approntato e funzionante. Insomma si pole partire. La mattina mi son accordato con il resto del gruppo. Dalla città della ceramica al luogo della ricerca ci sono centoventi, un paio d’ore per queste strade. Dopo pranzo si scaldano i motori e si va. Verso le sedici siamo in vicinanza di Agrigento e della sua “valle dei Templi” che serbiamo per il tramonto. Adesso ci tocca il bagno lungo costa. Tac. È il momento di accendere tutti i sistemi di ricerca. Bip. Nessun esito: Nichts, rien, nothing, nada. Insomma niente. La tecnologia ci manda in giro per città e campagna. A vuoto per un’ora e anche di più: stradine senza sfondo, località che non esistono, perdita di segnale, aggiornamento in russo e simili quisquilie e pinzillacchere. Evidentemente questo luogo non ne vuole sapere di esser trovato. È un fantasma o forse son io che non lo devo visitare per un qualche disegno superiore, fattura, sfiga o che ne so? Questo non so. Son però sicuro, ho fatto i conti proprio stamani, che son quasi cinquanta che mi voglio cimentare nell’arrampicata della scalinata. Quella dei turchi.

04/06/21

Recinto

Recinto | 2014-16 Sono recinti gli orti conclusi e i chiostri, i cimiteri e le città murate, i castelli e gli stadi, la grande muraglia e il labirinto. Quest’ultimo è un particolare modello di recinzione. Ci spiega J. L. Borges che: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”. Il mito ci racconta del primo di questi modelli. Del palazzo reale di Cnosso e del suo mostruoso abitante che si nutre di fanciulli; dell’eroe senza macchia e neanche un briciolo di paura e della figlia del re che se ne innamora. E soprattutto ci parla del filo rosso che serve a ritrovare l’uscita dopo che il buono ha trucidato il cattivo. Questo è il labirinto che ho visto per primo. L’ho veduto a Lucca dove “Sotto l’esonartece occidentale del duomo fu murata sulla parete nord del campanile una lastra in pietra raffigurante un labirinto”. L’ho guardato e toccato al tempo degli studi quando ero in giro per la Garfagnana a studiare paesi e città, fiumi e ponti del diavolo, paesaggi e piani regolatori. L’ho fotografato e stampato, ricalcato, disegnato e anche calcato col gesso. Ho studiato per anni il suo negativo. E poi l’ho usato per il progetto del tavolo di pietra, marmo e terracotta che adesso riposa in pace sotto il Salice lungo il confine. Il confine è una linea. Molto spesso, specialmente se stiamo fuori dal recinto, è un tracciato virtuale e altre volte è un solco sul terreno. Un fosso che delimita due possedimenti. Un limite ben definito tra chi sta dentro e chi sta fuori. Così che Romolo uccide Remo dal momento che ha osato scavalcare il solco appena tracciato che segna il limite della città fondata. Estratto da “Aree di confine”, Margine (a note) pag.. 25-28. Ordine APPC Arezzo, 2017

29/05/21

Stortignaccolo

Stortignaccolo | 2021 . I. Il lotto, un rettangolo che misura 85x427, è stretto tra terreni incolti e vetuste opere di urbanizzazione che magari si gioverebbero di un accurato restauro. Comunque sia il verde, apparentemente in forma di generica erbaccia in realtà una sapiente mescolanza di Gramigna e parenti suoi vari, la fa da padrone. Il terreno non ha nessun riferimento con intorni, luoghi o punti cardinali. E naturalmente non dialoga, anzi meglio si rifiuta di conversare, con il contesto compreso le costruzioni vernacolari che, sempre più prepotentemente, stanno spuntando nelle campagne limitrofe. Paperopoli o Villetttopoli che sia. Il paese che ci meritiamo. . II. Si sente diverso lui. E magari lo è. Fatto ne sia che l’appezzamento diventa, per cosi dire, una forma viva e senziente sulle tracce di racconti e storie del fantastico sin da quando si è cominciato a incidere l’argilla con lo stilo. Per cui comincia a pensare e studiare la strategia per migliorare la sua posizione nel mondo. Pensa e cogita fino a convincersi che la meglio è diventare architetto per se stesso. Ergo progetta la struttura che lo farà conoscere al resto dei suoi simili. Disegna lo scheletro di una capanna lineare. Dalle ragguardevoli misure di 387x41 alta centosessanta e due. Cinque pilastri inclinati di quindici gradi si specchiano verso altrettanti omologhi incrociandosi al centro. Cinque travate longitudinali uniscono le colonne dal basso fino in sommità stabilizzando e controventando la struttura. La fabbrica, in barba a tutte le regole urbanistiche incluse quelle di prossimità del lotto, buon vicinato e compagnia bella, è disassata di quindici gradi rispetto all’asse di simmetria longitudinale orientandosi lungo la dorsale est ovest e assumendo così un bel carattere modernista e contemporaneo. Una copertura trasparente alla bisogna e “il gioco sapiente dei volumi sotto la luce” è fatto. Semplice, efficace e di sicuro effetto: “easy”. . III. Ma la realtà a volte supera la fantasia. Lo sterro. la palificazione e il resto compreso gli elementi di raccordo e i giunti furono eseguiti, me ne scuseranno gli animali portati in causa, da cani e anche peggio. Orizzontamenti e copertura, anche se pagati nell’appalto a corpo, non sono mai stati eseguiti. Tanto che l’intera costruzione, mai terminata, risulta totalmente inagibile. Lo scheletro è un inno a spreco e non finito o meglio all’interrotto e il costruttore è stato invitato a rispondere per danni. Gli avvocati sono già al lavoro. Intanto per dare una sistemata ed un minimo di decoro sono stati piantumati 10 “Solanum lycopersicum” che a maturazione produrranno dei dolci e succosi frutti rossi. Rammento che all’epoca alcuni “soloni” erano talmente presi dal progetto che spesero parole impostanti come “Tarapia tapioco come se fosse antani con la supercazzola prematurata, con lo scappellamento a destra”. Son gli stessi che adesso scrivono i peggio articoli sulle patinate riviste del settore con frasi graffianti e cattive che non par cosa qui riportar. Da parte mia vorrei essere più prosaico e lasciar perdere i superlativi dei primordi e i dispregiati dell’odierna era e chiudere con una parola. . IV. Stortignaccolo.

23/05/21

Ai Mori

Ai Mori | 2020 In quel posto ci son nato. Si … eccome … lo rammento bene nonostante la demenza senile degli ultimi anni abbia offuscato alcuni vecchi ricordi. Adesso sono ospite dello splendido e da poco rinnovato ricovero di via dei Boschi dotato di tutti i confort e tecnologia previsti dalle leggi e anche di più. Pensate che oltre alla ritirata dotata di specchio e acqua corrente calda ha pure: radiatori sotto pavimento, luce sopra al letto, collegamento internet senza cavi e aria fresca in ogni stanza, ascensore e finestre con i vetri. Quando non prendo troppe pasticche a volte torno a prima della guerra. Salgo sulla macchina del tempo e via. Quando ci vivevo nella casa costruita da Leopoldo un paio di secoli addietro. Almeno così raccontava il capoccia quand’era in vena di chiacchierare delle vicende famigliari. Il babbo del mi’ babbo raccontava che la nostra famiglia ci viveva sin dalla costruzione. Anzi meglio l’aveva proprio inaugurata con tanto di grande desinare e balli e canti da mane a notte. Ad un certo punto si era presentato pure il fattore con la famiglia a bagnar lo stipite di pietra della porta d’ingresso. Pare che i due figli maschi rimasero fino a tardi anzi forse anche per la notte. Siccome non c’avevano ancora i letti dormirono tutti per terra e dopo nove mesi nacque un bel “cittino” di tre chili e settecentocinquanta. La mamma Assunta non rivelò mai il nome del padre e per questo la creatura fu chiamato Moro per via dei capelli corvini e occhi altrettanto. E a quel punto il vegliardo sparava sempre il numero 1793. Lo stesso che poi, quando mi hanno sollevato dall’incombenza del “badar maiali” e costretto a rispondere a scuola su lettere e numeri, ho imparato a riconoscere impresso sul mattone chiave di volta della crociera sotto il portico. La nostra era una bella casa. La maestra ne aveva anche parlato in classe durante l’ora di storia. La nostra apparteneva, con almeno trecento altre, alle così dette “Leopoldine”; coloniche e relativo podere sgranate lungo la valle in vicinanza della Chiana. A distanze pressoché uguali le une le altre quasi fossero tanti soldatini piazzati, nelle loro garitte, a difesa del fossato che taglia in due il fondovalle e la rende fertile come non mai. Comunque che fosse nostra o che la usassimo soltanto era maestosa. “Due piani; 18x18, altezza quasi 8 che con la colombaia al centro toccava i 15; con 9 stanze a piano di cui una occupata dalla scala avvitata al forno e recinta dal ballatoio con gli archi ogivali”. A terra c’erano stalle, magazzini, cantine e un grande porticato che si raddoppiava e diventava loggia al primo. Qui ci stavano, fitte e strette, tre famiglie per diciassette cristiani compreso i bambini anche se la nonna raccontava che allo scoppio della Spagnola ne aveva contati ventiquattro. Intorno, quasi come un recinto di protezione, una serie di capanne, di uno o due piani coperte alla selvatica, necessarie ai lavori agricoli. Poco distante la pozza delle nane attaccata all’orto e seguita dal pollaio a sua volta appiccicato alla concimaia di lato al porcile. E poi sette ettari di podere, tutto in piano bagnato dalla rete dei fossi e fertile assai, adatto per cereali e legumi, ortaggi e frutta e l’erba per le bestie. In verità la casa non era nostra. Anzi con precisione apparteneva, fin da quando c’era il nonno e il nonno del nonno, alla famiglia Berlinghieri padroni dei muri, dei campi e del podere tutto compresi altri ventuno disseminati lungo il “Canale maestro”. Noi eravamo, da sempre, a quanto mi dicevano da piccino, solo dei modesti mezzadri. E come tale la nostra famiglia lavorava come bestie e insieme a loro, dalla mattina alla sera da un anno all’altro, il terreno del signor Alfredo e dei suoi antenati secondo doveri e oneri del contratto temuto e rispettato quasi che fosse l’undicesimo comandamento. In effetti noi eravamo discendenti di “colui che divide a metà”. Un sottoprodotto che vien dal “quattrocento … quasi millecinque”. La vita era magra; sia prima che dopo la liberazione quando cominciai a lavorar alla fabbrica dell’oro; la prima e più importante della città; e a suonar nella banda del paese. Apprendista al lavoro ma primo sassofonista nel gruppo. Com’è come non è la musica mi veniva facile. Non la sapevo leggere, per via che nessuno me l’aveva insegnata, ma ad orecchio suonavo marce e marcette oltre che gli inni religiosi durante le processioni. Una bella soddisfazione per un ragazzino di dodici anni che a malapena aveva letto in quinta il libro di Pinocchio. L’anno della dichiarazione di guerra avevo imparato a salire sugli alberi. E d’allora ero diventato così bravo che gli amici mi canzonarono in “scoia”, diminutivo di scoiattolo, per la destrezza e velocità con cui saltavo sulle chiome anche di quelli alti. Fu sul più alto e maestoso dei gelsi vicino a casa che feci la mia prima arrampicata. E da allora diventai, per la famiglia, il fornitore ufficiale dei suoi frutti. Dalla fine di luglio e per il mese successivo saccheggiavo quei filari lungo la strada vicinale alla ricerca delle bacche nere buone da succhiare e ancora meglio quando la mamma ci faceva la marmellata. Poi un giorno babbo prese la scala lunga e si arrampicò fino in vetta. Non cercava more, ormai tutte nei vasetti, ma era invece armato di taglienti per potare e con queste armi diradò ben bene la chioma lasciando sul tronco i rami più vecchi mentre i giovani finirono in terra insieme alle foglie fresche. Quelle belle e soffici; verde chiaro quasi come erba di campo. Buone per i bombi. Le donne di casa le staccarono una ad una e ci riempirono alcune ceste di vimini. Con garbo e delicatezza, quasi dovessero maneggiare un finissimo tessuto proveniente da mondi lontani, Si caricarono i pesi sulle spalle e, con l’aiuto di noi bambini, salirono le scale fin sopra la torretta centrale. Qui aprirono i bassi usci per accedere al palco morto; soffitto non praticabile delle stanze sottostanti; e governarono i produttori della seta. I quali fecero il loro mestiere in pochi giorni. Dopodiché si guadagnarono un bel bagno bollente nel pentolone attaccato alla catena nel canto del fuoco. I bozzoli furono gelosamente serbati mentre il resto finì ad ingrassare l’orto. Poi a tempo debito la preziosa merce ci accompagnò sul carro per il lungo viaggio alla filanda lungo il fiume. Sonanti monete ballanti in cambio di matasse di filo. Ottimo affare. Ma adesso il pensiero ai soldi mi ricorda che proprio stamani son salito sul pullman senza pagare il biglietto. Sono una persona d’altri tempi e non ho mai; dico mai; lasciato debiti. Quindi quando questa storia sarà finita mi devo ricordare di cercare l’autista, pagare e scusarmi. Sarà il caso mi faccia un nodo al fazzoletto? Fatto. Stamani mi son alzato presto. Saranno state le cinque e dormivano tutti. Anche la sorvegliante con le fattezze dell’infermiera M. Ratched; quell’aguzzina dagli occhi azzurri del “… nido del cuculo …”. Se ne stava lì bella bella con il suo cappello bianco appoggiato, come il capo, al bancone della ricezione. L’avevo lungamente spiata e sapevo che quella era l’ora giusta. Mi son vestito con la tuta blu da operaio dell’ultimo giorno di lavoro. Son trent’anni che la conservo nascosta tra le camicie della domenica e il paltò che mi ha regalato Gina. Mi ha accompagnato anche qui dopo che Lei se n’è andata. E ora l’indosso come quella volta. Mi son fracassato i coglioni di abitar nel casone a due piani con questa compagnia; una quarantina di esseri compreso alcuni animali che ci lasciano tenere; non voluta e non cercata ma casomai imposta dai figli. Abitano fuori regione e nessuno dei tre, in questi ultimi sette anni, si è offerto di ospitarmi. “Dai babbo … e che mai sarà., questa RSA è all’avanguardia. E poi è vicino casa”. E infatti stamani ho contato fino a sette e son scappato. Mi son riposto fino alle sedici nel recinto della piscina abbandonata. Ho fatto colazione con un culaccino di pane e lo stracchino serbato dalla sera prima. il coltellino a serramanico, con la lama consumata da troppe affilature e il manico d’osso annerito dall’uso, è un regalo del babbo. L’uso da oltre mezzo secolo e ancora fa il suo dovere. Ci spalmo il formaggio e lo pulisco bene con l’erba bagnata. Son pronto. Prendo la corriera alla fermata poco distante e in pochi minuti scendo all’incrocio. La via si chiama ancora come un tempo. Sopra all’indicatore di lamiera smaltata c’è scritto “Strada vicinale dei Mori”. Ci sono. Tiro fuori il bastone da passeggio e indosso il cappello per proteggere la nuca dal sole che comincia a picchiare. E caracollando m’incammino sul nastro d’asfalto. Provo ad immaginarmi i commenti dei passanti alla vista di un vecchio, di quasi novant’anni con tuta blu consumata dall’uso, cappello da pescatore e bastone autoprodotto in legno d’ulivo. O forse è meglio pensare a risate e sfottò? La seconda direi. Come sia vado per la mia strada fino a quando la vedo. La mia casa anzi quella del padrone. È stata l’abitazione di famiglia per quasi duecento anni. Poi gli Stones lanciarono sul mercato “Jumping Jack Flash”. Era il sessantasette e lo stesso mese anche l’ultimo dei Berlinghieri ci si lanciò. Era sommerso da debiti e cambiali e assalito dagli strozzini. Mise sul piatto il vinile appena sbollato e saltò dal piano nobile del palazzo sul Corso proprio il giorno del mercato. Lo vedo il rudere della Leopoldina. Sapevo che era disabitata da molti anni ma non immaginavo che il tempo e l’incuria degli uomini l’avessero potuta ridurre così come la vedo. E per di più inaccessibile recintata com’è con rete a rombi e filo spinato in sommità.. Questo mi rovina il sopraluogo lungamente progettato. L’unica mossa che posso fare è salire sopra il non lontano terrapieno della ferrovia Direttissima che se potessi percorrere mi porterebbe da Roma a Milano e forse anche più in avanti. Prendo a destra per la stradina di campo fino alla base del bastione. È dura. Mi tocca cedere all’appoggio del l bastone e aiutarmi con un paio di imprecazioni. Ma alla fine ci sono. Qui sopra. Alla stessa quota del tetto della casa. Posso veder dentro. Prima però lo sguardo mi cade su due aggeggi che non c’erano durante all’ultima visita. In destra una giunta alla fabbrica del recupero e dell’energia. Si tratta di una specie di palazzo urbano suddiviso in tre porzioni di altezze diverse. Lo vedo da lontano ma pare aver pareti di terra con filari di mattoni e tetti piani coperti a erba medica. La porzione più bassa porta in sommità , come sentinelle, due giovani Gelsi. Quella più alta e massiccia presenta di lato un’intera parete, appena staccata dalla facciata, di glicine rampicante. E quasi a fare il paio con la colonica che non c’è più in sinistra mi colpisce la vista di una replicante. Posso intuirne le medesime misure e proporzioni. Solo l’altezza è diversa. A questa manca un piano e la copertura calpestabile è totalmente infiorita. Tutto intorno una cintura di orti con bassi recinti e capanni di legno. Dietro intravedo pollai e recinti per animali mentre davanti un piccolo frutteto e un maestoso Moro invitano ad entrare in fattoria. Lo farei anche volentieri ma il sole comincia a salutare e io con lui. Scendo dalla montagnola e controllo il contenuto del vecchio e capiente sacca pane dei tempi del servizio di leva. Ci rimesto dentro alla ricerca della custodia in pelle che finalmente scopro, dopo diversi e infruttuosi tentativi, nascosta in fondo alla sacca dal costume lavato e stirato. Soddisfatto allaccio quindi la corda e mi stringo bene le cinghie sulle spalle. Devo proprio andare. Mi avvio verso il paese. Mi son promesso di fare quello che sogno tutte le notti da oltre trent’anni. Da quando mi han ritirato dal lavoro e dalla banda. Non ci fu niente da fare. Appena sei fuori dal lavoro sei fuori dalla musica. Vecchiaia? Raggiunti limiti? Malattia? Tumore? Cancro alla pelle? Polmonite? Ciao e basta. Ma io mi son tenuto in allenamento. Tutti i giorni che Dio, o chicchessia, mette in terra mi faccio la mia suonata prima di cena. Suono, sempre ad orecchio, oramai qualunque genere compreso bossa nova, jazz e liscio. In tutto questo tempo ho tenuto lo strumento in perfetta forma e adesso mi sento veramente pronto. Le prime luci dei lampioni salutano il mio arrivo. San Leonardo è laggiù. Illuminata a fiaccole. Son cominciati i preparativi della sacra rappresentazione. Ma non sono interessato a tutto questo. Devo riunire la banda. Come quell’attore vestito di nero, con anche neri cappello e occhiali, di una pellicola del secolo scorso mi son fissato con la riunione dei musici. Ricordo che poco dopo che fui allontanato anche il resto dell’orchestra si sciolse. Ufficialmente per raggiunti limiti d’età dei componenti. In realtà perché avevamo un repertorio più vecchio di noi stessi e non passava esibizione, ricorrenza, processione o funerale che non s’incorresse in un paio o più stecche. Con risate sguaiate degli astanti. Ma da allora; era l’ottantanove l’anno della cascata del muro; ci eravamo tenuti in contatto, in allenamento e segretamente progettato la “grand rentrée”. Stasera. Venerdì Santo a suonar per la processione in costume.

14/05/21

Un campo

Un campo | 2020 C’era da vedere poco. Il sopraluogo risultò assolutamente inutile. Per arrivarci avevo percorso una stradina con due filari di gelsi che si fronteggiavano sul bordo quasi a salutar i passanti. Il navigatore mi ci condusse con precisione. Ad un certo punto una voce gentile fece “Alt … siete arrivati … volgete lo sguardo a sinistra … ciao”. Toccava scendere. Appena dopo la banchina erbosa c’era un fosso profondo e subito dopo un campo di foraggio, da poco falciato, raccolto in rotoballe. Quelle a forma di grosso cilindro schiacciato lasciate nei campi fino alla fine dell’estate. Allineate o sciolte come tante ruote giganti in attesa di un veicolo che le faccia muovere. Bellissime. Soprattutto verso il tramonto quando il sole di settembre ci gioca a nascondino. E poco altro. In sinistra un caseggiato in forma di tenuta di campagna circondato anzi meglio assediato d strane tende che vagamente richiamavano quelle arabe usate dai beduini. In destra i resti semi distrutti di un’antica casa leopoldina. Quelle tipiche con la torretta, le logge e il resto. In fronte, ma in lontananza. le colline della valle dell’Arno e, poco lontano; a stima cinque – seicento metri; il bordo alberato del Canale maestro. E chissà come o perché mi tornò in mente un trattato, lungamente sfogliato al tempo degli studi e anche dopo, che nel titolo aveva la frase “Delle case de’ contadini”. Mi accoccolai e piegai in avanti il corpo con la faccia quasi rasoterra. Come a vedere il mondo dalla parte delle formiche. “Ecco …” pensai “… visto da quest’angolazione mi pare un poco meglio.” “Ci farò una fattoria”.

10/05/21

Ubicazione

Ubicazione | 2020 -I- Rammento bene la prima volta. Verso la fine di luglio alle dieci del mattino per sopraluogo ai luoghi del progetto. Era la mia prima visita all’impianto e non mi colpì la massiccia mole della fabbrica del recupero rifiuti e produzione energetica e neanche la vista della ciminiera, del resto ben svettante, con i suoi quasi quaranta metri e le strisce bianco rosse, nel piatto panorama del fondovalle. Tutt’altro. Piuttosto la strada di accesso alquanto stretta che m’indusse a sbottare ad alta voce “… a malapena si scambiano due auto … figurarsi quell’autoarticolato che ci viene incontro”. Come sia la manovra andò in porto anche perché il nostro mezzo, decisamente più piccolo dell’altro, trovò rifugio lungo la generosa panchina inerbita e intervallata da un singolare filare di alberi di medio fusto di forma globosa e chioma di un bel verde brillante. Che a tutta prima classificai come alieni cioè non autoctoni. La seconda occhiata, questa volta verso terra, mi disvelò il modello arboreo. Abbassai lo sguardo a terra sull’asfalto macchiato di sangue scuro ed esclamai “Mori … son filari di mori … come quelli dove si saliva d’estate a raccoglier bacche”. Queste erano invece cadute e lasciate a marcire per terra. Con evidenza quei frutti non erano d’agio a nessuno. Con questi pensieri mi accinsi alla visita guidata e all’impegno del successivo progetto. -II- Il lotto; un quadrato di trentacinque metri; comprende la palazzina degli uffici e l’immediato intorno adibito a viabilità e parcheggio. Verso nord ed ovest si stagliano i volumi produttivi dell’azienda: capannoni prefabbricati, di varie altezze e dimensioni, con i prescritti piazzali di manovra. il recinto al confine delimita e separa l’attività dai campi agricoli e dal vicino Canale delle Chiana. In lontananza colline boscate e in vicinanza la strada vicinale dei Mori. Insomma un luogo senza particolari caratteristiche morfologiche che sono ampiamente compensate dall’attività insediata che si occupa di temi a noi molto cari come recupero, rifiuti, energia, ambiente e quanto altro possa esserci collegato. Un posto da progettare.

29/04/21

Gram Michele

Gram Michele | 2007 Il progetto della piazza viene da lontano. Inizia nelle aule dell’università, si delinea per una tesi di laurea e si esplicita per un concorso nazionale a cui parteciparono, dieci anni secchi or sono, centosettantacinque proposte. Il concorso premiò il progetto denominato “il camino del sole … gli spazi del giorno” qui di seguito raccontato. Le città fondate di sana pianta hanno sempre solleticato la fantasia degli architetti. E Grammichele è una città ideale; immaginata nel 1693 dal Principe che presta il suo nome alla piazza; sorta dopo il catastrofico terremoto che rade al suolo l’antico abitato di Occhiolà. Il gruppo del progetto continua ancora a credere che il Mestiere sia una via lunga e difficile; fatta di notti perse a studiare, di giorni di festa adoprati per mettersi in pari, di anni per imparare a disegnare; per cercare -come diceva J. L. Borges [grande raccontatore di fantastico]- “... la via dei sentieri che si biforcano...” ; per riannodare il filo [del pensiero] e trovare il progetto in quel luogo e per quel luogo con un approccio ogni volta esclusivo e aderente alla città. Il progetto quindi, alla ricerca dello più profondo spirito del luogo, si muove su diversi piani collegati da intrigati percorsi di fili arrugginiti e luccicanti, emozioni e logica, disegno manualità. Così che abbiamo scelto la strada della semplicità. La grande piazza esagonale; il suo punto centrale generatore della forma, la trama urbana con le strade a raggiera che si dipartono dalle mediane dei sei lati e individuano i sestieri, il sole che è sempre presente in questi luoghi e scandisce la vita della gente, la presenza della chiesa Madre che rompe il tessuto viario, la continuità delle facciate e l’amore per la città hanno costituito i punti di partenza della ricerca. La pietra lavica del vicino vulcano con la sua fitta trama; le sei strade che pervengono entro la piazza e circumnavigano il centro, i minimi elementi di arredo, i paracarri o fittoni in pietra bianca con dentro le lampade per l’illuminazione a raso della piazza, le sedute che circondano le aiuole delle palme, gli apparecchi illuminanti in metallo, il raddoppio-ribaltamento delle navate della chiesa sulla piazza, la scultura del principe e il complesso disegno dell’orologio solare con i solchi sulla pavimentazione costituiscono i fondamentali elementi del progetto. Il Gnomone in bronzo al centro dell’impianto attende i primi visitatori.

La scappata

La scappata | 2021 Il sedici del quarto si decisero a cercarlo. Se n’era andato verso la fine dell’estate precedente con famiglia, animal...